Questo post ha vinto il Premio Treccani Web!
Architettura e sharing economy: si può? Ma soprattutto: la sharing economy porta a concorrenza sleale?
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Ricordarsi di giudicare la questione senza cadere da un lato nel bieco corporativismo professionale e dall’altro nell’adorazione cieca per tutto ciò che fa sharing economy.
Se negli ultimi tempi sei stato perseguitato da questo argomento, saprai già di che cosa scriverò oggi: della polemica del mondo degli architetti in merito a CoContest.
Per chi invece non ne abbia avuto giornali, social e podcast pieni, in breve CoContest è un marketplace a tema interior design lanciato da tre ragazzi italiani in cui potenziali clienti da tutto il mondo propongono dei concorsi – contest, appunto – relativi a problematiche di progettazione sulle loro case/uffici/negozi, e i designer iscritti alla piattaforma, anch’essi provenienti da tutto il mondo, hanno un tot di tempo per presentare la propria idea progettuale. Alla fine di questo tempo il cliente fa una classifica e stabilisce il suo podio di tre vincitori, e tutti e tre ricevono un “premio”. Quello che succede dopo non lo sappiamo. Il cliente seguirà l’idea progettuale che ha vinto? Il designer verrà contattato per passare alla fase esecutiva del lavoro e quindi avrà un ulteriore incarico? Boh. Non ci riguarda.
Le categorie di concorso ammesse sono arredo (anche di singole stanze), ristrutturazioni (di appartamenti, uffici, negozi, ristoranti) ed esterni (terrazze, piscine, giardini). Il cliente che propone il contest può scegliere fra tre diversi gradi di complessità dell’idea progettuale che andrà a ricevere, pagandola diversamente: concept (pianta concettuale, pianta dettagliata e schema d’arredo), project (alle precedenti si aggiungono tre render ed eventualmente una sezione), advanced (in aggiunta alle precedenti, altri tre render, uno schema delle finiture ed eventualmente uno schema delle luci).
Che cosa mi ricorda questo sistema? Una recensione di Wired riportata sull’homepage di CoContest dice che “CoContest trasferisce la logica dei concorsi pubblici usati per progetti architettonici complessi alla tua cucina di casa“. Esatto: su un’altra scala, ma sempre di concorsi si tratta. Ma non è nemmeno questo che solletica la mia memoria: più di ogni altra cosa, ci vedo l’affinità con quelle rubriche tipo “Posta dell’Architetto” che si trovavano (e forse si trovano ancora) sulle riviste di arredamento.
Qui devo fare una parentesi personale perché questa cosa è molto amarcord per me. Devo confessare che uno dei motivi per cui oggi sono un architetto è proprio la collezione di Casaviva anni 70 e 80 di mia madre con la quale ho convissuto nell’adolescenza e la relativa Posta dell’Architetto: “Vivo in un appartamento nel sottoscala, architetto, riesce a ricavarmi una stanza in più e il secondo bagno?”. Dopo questa ammissione, so che non potrò mai più passare a testa alta di fronte agli edifici di Giò Ponti che circondano casa mia, ma è così: perdonami Giò, me lo tenevo dentro da tanto.
Il livello dei progetti in concorso direi che è proprio quello della Posta dell’Architetto: quindi da dove viene la polemica?
Chiediamoci innanzitutto se i privati che oggi usano CoContest si rivolgerebbero davvero ad un architetto se la piattaforma non esistesse. Io temo che il 90% chiederebbe al massimo un consiglio a titolo gratuito alla mitica figura dell’amico-architetto, che di certo è ben felice di liberarsi di questo accollo (cit).
Ma proseguiamo nel discorso: l’idea di CoContest ha avuto un grande successo e fa faville in tutto il mondo, tranne che in Italia. Partita nel 2012, ha ricevuto infatti il finanziamento di “Startup Chile” nel 2013 e di “500 Startups”, una dei più importanti acceleratori di startup della Silicon Valley, nel 2015, nonché l’elogio di Forbes.
In Italia invece cosa è successo? Da architetti è facile immaginare che le cose siano un pò più complesse di come le ho descritte. Innanzitutto uno dei fondatori, l’unico architetto, è stato sospeso dal proprio Ordine di appartenenza per comportamento non conforme alla deontologia professionale. Poi il CNAPPC (Consiglio Nazionale degli Architetti) ha aperto un procedimento all’Antitrust per concorrenza sleale e, infine, è di questi giorni un’interrogazione parlamentare al Ministero dello Sviluppo Economico, guidata da una parlamentare di SEL, l’architetto Serena Pellegrino, che pare aver sorprendentemente messo d’accordo tutti i partiti. I temi della disputa sono la violazione delle leggi italiane e delle direttive europee che regolano il rapporto fra Cliente e Professionista e il ruolo di CoContest come attività di intermediazione, illegale nel nostro ordinamento giuridico. A mio avviso questa lettura varrebbe allora per tutte le piattaforme di marketplace online, ma non ho gli strumenti per dare un parere legale: di certo ormai è chiaro che sia necessaria una legislazione apposita per la sharing economy, che è infatti in discussione al Parlamento Europeo, mentre una proposta di legge è arrivata in questi giorni anche alla Camera dei Deputati.
Il fatto che gli architetti si rivolgano al governo per cercare giustizia, comunque, mi lascia perplessa, dopo la bella sorpresa del famoso spot sulla semplificazione dei “lavori di casa”.
Ora, ecco qual è il mio personale dilemma in questo particolare frangente: se ho parteggiato per AirBnb e non per la categoria degli albergatori, per Uber e non per i tassisti, questo mi pone irrimediabilmente dalla parte di CoContest, ora che è la mia categoria professionale ad essere chiamata in causa?
Ma prima di tutto mi chiedo: ma è davvero chiamata in causa? CoContest rappresenta davvero una minaccia per gli architetti? Provo ad analizzare la questione, augurandomi che nella mia veste di architetto “giovane” (almeno nelle intenzioni) io possa dare un contributo alla mediazione dei due punti di vista.
Cosa ha fatto CoContest per fare tanto arrabbiare gli architetti?
Partiamo dallo spot andato in onda su SkyItalia, che è stato, quello sì, un epic fail. Se ti va, puoi vederlo qui, ma per cominciare, nell’immagine che apre questo post, tratta proprio dallo spot, vediamo la spaventata cliente Fabiola nello studio del vecchiardo architetto cattivo che le ha venduto a caro prezzo un progetto che non l’ha convinta (poi lei si salva perché scopre CoContest).
Il primo punto di polemica è stato questo: la denigrazione della categoria professionale. Spot a parte, non posso dire che non sia vero: aprendo l’homepage di CoContest nella sezione Come funziona? ci viene spiegato che il “sistema tradizionale”, cioè rivolgersi allo studio di un professionista, è lento, molto caro, dà poca scelta e un punto di vista limitato, mentre CoContest è veloce, ha costi più contenuti e una grande varietà di scelta grazie ai molteplici punti di vista dei designer coinvolti (è il concetto di crowdsourcing). Ragazzi, ma perché una provocazione così palese? Non era meglio puntare sul fatto che CoContest sia oggettivamente più divertente, più pratico perché non ti devi muovere da casa e che aiuti a superare quella sudditanza psicologica verso l’idea che rivolgersi ad un architetto per rifarsi casa sia una roba da ricchi?
Il secondo punto della polemica riguarda l’ambiguità del servizio offerto: cosa compra il cliente su CoContest, a parte l’esperienza in generale? Basta scorrere i contest conclusi (li trovate qui) perché un occhio allenato capisca che si tratta di “concept”, ovvero di suggestioni progettuali, e non di progetti esecutivi veri e propri pronti per essere realizzati. Appunto, un occhio allenato se ne accorge, ma siamo certi che un cliente sia in grado di capire la differenza? Ascoltando e leggendo le interviste ai fondatori di CoContest, mi ha colpito la frase: “Un cliente che deve ristrutturare casa conosce la regolamentazione e i suoi obblighi molto bene” (fonte). Questo, ahimè, non è vero, e basta aver seguito poche pratiche edilizie per saperlo. E ancora: “Il 50% delle nostre gare riguardano arredo e ristrutturazioni non strutturali e quindi il progetto può essere realizzato dal cliente senza la necessità di documenti burocratici“: vero per l’arredo, non certo per le ristrutturazioni, anche se non strutturali. Ma anche in questo caso, perché non si è arrivati ad un compromesso? Che ci sia per esempio una sorta di contratto che sia il cliente sia il designer debbano sottoscrivere, anche tacitamente, all’iscrizione alla piattaforma, una sorta di policies, di condizione di vendita, come è buona norma ci sia in qualsiasi marketplace (io ho l’esperienza di Etsy, per esempio). In questo contratto sarà scritto nero su bianco che il cliente deve essere consapevole che per alcuni tipi di intervento sono necessari il rispetto di normative nazionali e locali nonché la presentazione del progetto firmato da un tecnico abilitato agli Enti competenti, a garanzia del rispetto delle condizioni di sicurezza e di igiene, e che CoContest non offre questo servizio e non ne è responsabile. C’è già? Io non l’ho trovato. Se il consumatore finale è consapevole, e sceglie comunque di acquistare il servizio, a mio parere il problema non sussiste.
In conseguenza a questo si arriva al terzo punto di polemica che ho individuato: la mancanza di garanzie sulla professionalità dei progettisti iscritti. E’ vero, al momento dell’iscrizione, la qualifica specifica, oltre a quella generica di “designer” che vale per tutti, viene autocertificata da chi si iscrive scegliendola da un menù a tendina fra le seguenti possibilità: interior designer, architetto, industrial designer, ingegnere, urban designer (?), studente o altro (?). Il problema sarebbe banalmente superabile introducendo la richiesta di inserire il proprio numero di iscrizione all’Ordine professionale, a cui potrebbe fare seguito, per esempio, il conferimento di una specie di “badge” che segnali il progettista abilitato, il cui progetto risulterebbe “stellato”. Ma credo che per CoContest la questione sia intimamente legata al tema portato come bandiera, quello della meritocrazia: vince il concorso chi è più “bravo”, o meglio, chi riesce a convincere il cliente, che, lasciato a se stesso, ovviamente sceglie sulla base della propria capacità di giudizio. Il più bravo, in questo caso, non per forza è il più titolato. Per digerire questo punto bisogna tenere bene a mente quello di cui stiamo parlando: non di un progetto esecutivo realizzabile, ma di un’idea progettuale. Non è necessario essere abilitati per dare i propri 2 cents in questo campo, al massimo aiuta.
Il quarto punto di accusa riguarda lo schiavismo al quale sarebbero costretti i progettisti che non vincono. Su questo in generale non sono d’accordo: trattasi di corcorso, chi sceglie di partecipare sa a cosa va incontro, altrimenti il discorso varrebbe per qualsiasi tipologia di concorso di architettura. Quale sarebbe la differenza in questo caso? Si è parlato da una parte della commissione che CoContest riceve sui premi dei designer vincitori e, di nuovo, funziona così per tutti i marketplace, non stiamo parlando di forme di beneficienza, ma di imprenditoria (anche Ebay guadagna sui propri venditori, come Etsy incassa sui propri artigiani); dall’altra, della cifra richiesta per “l’account Premium” (€ 9,00/mese o € 70,00/anno), che però non è indispensabile, dato che per partecipare ai contest ed avere il proprio portfolio online è sufficiente la registrazione gratuita. Anche questa in generale non è cosa mai vista, altrimenti sarebbero deprecabili anche altre forme di pubblicità a pagamento per i professionisti, vedi per esempio questa offerta di CasaFacile. L’account Premium però dà una serie di benefit, in generale abbastanza superflui, ad eccezione di due: conoscere la località in cui si trova l’edificio oggetto del concorso (certo non fondamentale per i progetti di arredo) e l’invio dei propri dati al cliente, al di fuori del proprio profilo CoContest. Ecco, su questo punto ci ripenserei: forse gli extra potrebbero essere altri, tipo la priorità di notifica sull’uscita di un nuovo contest e la possibilità di avere dei giorni in più per la redazione dell’idea progettuale.
Ma qual è il punto di vista di CoContest?
Intanto qualche dato: secondo i fondatori, attualmente sono circa 12.000 i designer italiani iscritti a CoContest (circa 1/3 del totale), di questi l’80% circa sono architetti iscritti all’Ordine, e in tre anni sono stati distribuiti mezzo miliardo di dollari come premi dei concorsi.
CoContest sostiene che uno dei suoi obiettivi sia quello di riavvicinare le persone alla progettazione, e quindi il cliente all’architetto. E’ vero che oggi in Italia i clienti privati, i proprietari di una casa, per intenderci, di un negozio o di un ristorante, difficilmente si rivolgono ad un professionista: va molto il fai da te, o al massimo ci si affida al personale tecnico del negozio di arredamento o della grande catena commerciale.
La progettazione non è vista come un valore aggiunto per la quale sia necessario pagare. Ci si rivolge all’architetto o ad un altro tecnico abilitato quando ci si scontra con la burocrazia e si è obbligati alla seccatura della presentazione di una pratica comunale. Se CoContest è invece in grado di convincere i privati a pagare per un’idea progettuale, che dire, chapeau!
Nella mia esperienza di architetto non sono mai stata pagata per un’idea, anzi, in uno studio dove ho lavorato ricordo un caso in cui una nota azienda di jeans con un apostrofo nel nome ci ha pagato un progetto preliminare con tre, dicesi tre, paia di jeans, e un altro caso in cui dal proprietario di una cascina da ristrutturare ci è arrivata una cassa di sei bottiglie di vino.
Un altro obiettivo di CoContest è quello di spostare il potenziale mercato del singolo progettista dal locale al globale, di dare cioè la possibilità a progettisti italiani di lavorare con clienti stranieri e viceversa, altrimenti che chance avrebbero di incontrarsi? Innegabilmente è vero. Poi, certo, il rapporto diretto di un professionista con il proprio cliente, dal vivo, è un’altra cosa, ma, ancora una volta, ricordiamoci di cosa stiamo parlando: non di progetto esecutivo, ma di concept. E’ una forma che già conosciamo nel mondo NON online: pensiamo al concorso di idee, in cui uno studio di architettura vince un concorso anche dall’altra parte del mondo con il proprio concept e viene (non sempre) retribuito esclusivamente per questo. Poi sono altri che si occupano di sviluppare il progetto del professionista originale che spesso non ha più voce in capitolo. O, ancora, penso alla figura del local architect che assicura i rapporti con le amministrazioni locali per conto di progettisti che stanno altrove.
Infine, in merito all’entità del pagamento del premio ai designer vincitori dei contest, pur manifestando la volontà di alzare ulteriormente i compensi, CoContest sostiene che l’attuale premio medio, pari a circa $ 700,00 e corrispondente a circa quattro giorni di lavoro, non sia molto distante dal mercato reale di oggi del mondo della progettazione e che quindi il gap non sia così marcato. Anzi.
Certamente da architetto sono convinta che alcuni punti di CoContest vadano limati. Si tratta, a volte, di mettersi semplicemente d’accordo sulle parole: e allora non di “progetto” si parli, ma di “concept”, non di “architettura”, ma di “interior design”, non di “premio”, ma di “onorario”, se questo può farci sentire meglio.
Che ci sia qualcosa da fare, da innovare, nel mondo dell’architettura non è un mistero per nessuno: le cose quaggiù non vanno bene, per niente. Mi è piaciuta, nel confronto radiofonico fra Leopoldo Freyrie e CoContest su EtaBeta, l’apertura del presidente CNAPPC: “Qualunque innovazione che crei delle condizioni per cui gli architetti italiani possano accedere a possibilità di lavoro e a mercati basandosi sul merito ci fa piacere ed è iniziativa assolutamente positiva” (parlava in generale e non di CoContest).
Forse le regole devono cambiare, che ci piaccia o no, perché indietro non si può tornare e non mi sembra che dall’alto stia arrivando nessun aiuto miracoloso. CoContest è solo un piccolo passo, un tentativo, in questa direzione: di certo non risolverà i problemi della professione, ma non è nemmeno lo spauracchio che ci stanno presentando. E quindi trattiamo, prima di denunciare, proviamo a lavorare insieme e a trovare un accordo e a vedere le cose per quello che sono veramente. Chi si inventa un prodotto del genere – con pregi e difetti – non può che avere tutta la mia ammirazione.
Chiudo con un’idea per i cugini psicologi. Inventate anche voi una piattaforma ispirata alla “Posta del Cuore” di tante riviste femminili: gli psicologi iscritti si mettano in gara con i loro consigli e risoluzioni e il cliente-cuore-spezzato sceglierà il consulto vincente che lo porterà a vedere la luce fuori dal tunnel. Startuppiamo?!